Bebe Vio: “Prima di Tokyo avevo perso 10 chili. Appena finivo le gare svenivo e vomitavo”
Bebe Vio è una delle atlete più note del panorama paralimpico nazionale. Una vera icona, una combattente, ma non sono mancati nel suo percorso momenti di cedimento e anche di paura. In una lunga ed intensa intervista rilasciata al Corriere della Sera, l'atleta ha parlato ovviamente della sua esperienza a Tokyo, per la quale ha temuto di non farcela a raggiungere gli obiettivi che si era prefissata, perché prima di partecipare alle paralimpiadi è stata davvero male.
I rischi prima di Tokyo 2020
Come ha già raccontato dopo la vittoria della medaglia d'oro, la sua partecipazione alle Paralimpiadi fino a poco tempo prima della partenza era stata messa a dura prova. Bebe Vio, infatti, era stata ricoverata rischiando l'amputazione, ma appena ha potuto è tornata ad allenarsi anche se non è stato così semplice come immaginava:
Sapevo che il mio corpo per rimettersi in pieno ha bisogno di tempo e invece, appena ho iniziato a tirare di scherma, ho forzato. E ho tirato una botta così forte che mi è quasi uscito il gomito… Un infortunio serio. A un certo punto pareva tutto finito. Quel braccio mi era completamente morto. Mi hanno detto: ‘In due settimane va amputato, poco più e sei morta, se continui così sei morta'. In pratica era come fosse tornata la malattia. Avevo perso dieci chili, il braccio con cui tiro era magro magro, svenivo e vomitavo. Così sono arrivata ai Giochi di Tokyo. Svenivo e vomitavo.
La sofferenza prima e dopo le gare
Un malessere che non è stato momentaneo, ma anzi, si è protratto per più di una volta anche durante gli allenamenti e dopo le gare di scherma che richiedono una certa forza fisica e una concentrazione incredibile. Vio racconta al Corriere che fino all'ultimo secondo resisteva per non mostrare la sua sofferenza:
Una gara di scherma è composta da alcuni match la mattina, altri al pomeriggio. Faticosissimi. Il mio corpo proprio non era in grado di reggerli, fisicamente. Durante un match l’adrenalina è talmente alta che non senti dolori ma appena finivo il match mi prendevano per la collottola del giubbetto elettrico e mi portavano via perché svenivo. Non potevamo far vedere che stavo male in gara. È uno sport di combattimento, non puoi dire al tuo avversario che stai male. Il gomito non c’era più, era gonfissimo, rosso, non riusciva a star fermo, tremavo tutto il tempo, piangevo
Il legame con la sua famiglia
Il supporto della famiglia non le è mai mancato, ma pur sapendo di essere sempre supportata, era consapevole del fatto che se avesse parlato con i suoi genitori della sofferenza provata non avrebbe continuato ad allenarsi e a raggiungere il suo obiettivo: "Mamma e papà andavano ogni due secondi dai miei allenatori a chiedere come stessi e loro dovevano fingere perché io non avrei mai interrotto la gara Se loro avessero saputo tutto mi avrebbero bloccata subito. Avevo bisogno di loro e dei miei fratelli. Sennò non ce l’avrei fatta".