Vedere Temptation Island non è solo un esercizio di stile trash. Lo si guarda anche con distacco, estrapolando, dal tempo morto di un lunedì sera, un fugace appagamento. È la funzione disimpegnata di una tv che catalizza con la forza dell'immaginario da quartiere, con tutta quella sequela di situazioni quotidiane appartenenti a un substrato culturale demenziale e paradossalmente anacronistico, seppur terribilmente attuale.
È il ritorno all'imposizione del maschio dominante, a quello schema relazionale basato sul possesso e sulla condotta, alla delimitazione dei generi nelle loro funzioni. L'uomo che deve sentirsi uomo, rude cacciatore armato di cameratismo, e la donna che deve alimentarlo, coltivando, in modo silente, un flebile senso di emancipazione. Coppie che si separano e si mettono alla prova sottoponendosi alla pressione di tentazioni che altro non sono che abbordaggi ‘discotecari', mascherati da corteggiamenti ottocenteschi. Una palpeggiata maldestra nella jacuzzi diventa ‘sei il fiore più bello di tutti', famo a capisse.
Il sistema di rivendicazione che ne consegue è quello che delimita un territorio emotivo spesso alterato dalla natura di abitudini e malesseri psicologici che mai si penserebbero associati a ragazzi di 20 anni o poco più. In una società sempre più proiettata verso la rivalutazione del segmento femminile e del suo riscatto da secoli di continue subordinazioni, si collocano questi energumeni impomatati, con capello scolpito e barba laser, che pretendono di sentirsi avanti stando un passo indietro. Si impongono come traditori seriali, finti viveur, amanti del bello e cultori (o culturisti) della bella vita, e sembrano non interpellarsi minimamente sul peso specifico delle loro parole. Hanno conseguito un titolo di studio su aforisticamente.com e acquisito attraverso Lonely Planet l'insieme di esperienze di vita che li ha condotti dritti dritti a essere fieri di lavorare presso se stessi.
Al loro fianco, queste paladine dell'autolesionismo, consapevoli delle loro scelte e temerarie a tal punto da testare i loro maschi alpha nel più spinto dei privé vacanzieri, degno di un cinecocomero, nel quale la tentazione, in quanto donna, avanza scosciata su vertiginosi tacchi a spillo. Ed è qui che le temerarie devono assistere, inermi, alla decadenza del personal trainer Gianpaolo, convinto che dopo i 30 anni il corpo femminile sia da buttare; subire vessazioni per ‘aver fumato davanti alla tv nazionale‘; assecondare i pruriti dei partner, esimendosi dal soddisfare i propri; auto escludersi da un futuro di coppia, bruciando sogni, speranze e amor proprio in un continuo falò di vanità a loro nemmeno concesse.
Ed è di fronte a questo mancato equilibrio, costruito sulla forza della discriminazione e, a volte, di una buffa misoginia, che ci si ritrova a circoscrivere questa fetta sociale, a supportare la consapevolezza di un altro emisfero, fatto di uomini che non amano definirsi alfa con l'altro sesso perché troppo impegnati ad amarlo. Diverte, e inquieta, osservare questa fetta di giovanissimi uomini-risvoltino dimenarsi ancora per un vestito scollato, battersi per affermare un principio di infedeltà unilaterale e dedicarsi al proprio narcisismo con la stessa intensità con la quale curano le proprie mire espansionistiche sull'asse Ibiza-Formentera.
Diverte il fatto che sia reale, possibile, e aiuta il fatto che non sia totalitario, che la parte non costituisca l'insieme. Da qui il distacco che genera la risata e l'intrattenimento che resta tale, senza prendersi troppo sul serio. E così ‘È uno sfigato, io voglio morì zitella‘ diventa il manifesto di una generazione di coppie in erba, spesso unite nonostante tutto, nonostante la pochezza delle loro contraddizioni ed eterne insicurezze, e dell'ignoranza dalla quale hanno creduto di aver preso distanza il giorno in cui hanno acquistato un capo firmato, accompagnandolo al verbo strisciare.