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Isabella Ferrari: “Ho una malattia rara, in ospedale due anni per fare una terapia pericolosa”

Isabella Ferrari, indimenticabile Selvaggia di Sapore di mare, racconta i due anni di terapia cui si è sottoposta a causa di una rara patologia che l’ha colpita e che cominciò a manifestarsi il giorno in cui si accorse di non riuscire più a muovere le gambe. “Non farò il nome di questa malattia” dice l’attrice “ma adesso ho capito che non bisogna avere paura di morire”.
A cura di Stefania Rocco
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Fu il giorno in cui si svegliò realizzando di non riuscire più a muovere le gambe che Isabella Ferrari comprese di dovere indagare a fondo le cause di quel malessere. L’attrice, indimenticabile Selvaggia di Sapore di mare, racconta quel periodo a Vanity Fair che le ha dedicato una copertina in cui posa nuda, libera da abiti e condizionamenti. Quel giorno segnò l’inizio di un periodo confuso, scandito dalla necessità di vederci chiaro. A lungo Isabella non avrebbe compreso quale fosse l’origine di quei disturbi fino all’incontro con un medico di Roma che l’aiutò a comprendere quanto stava accadendo al suo corpo: “Qualche anno fa succede che una mattina mi sveglio e non riesco più a muovere le gambe. Tutto è precipitato in fretta. Inizia il calvario delle visite e delle diagnosi. E le diagnosi si dimostrano sempre sbagliate, anche quelle fatte da medici e ospedali stranieri. Vado all’estero, mando il mio sangue per esami negli Stati Uniti. Poi arrivano i dolori accecanti, il cortisone”.

La patologia cui Isabella Ferrari non dà nome

Fu a quel punto che la Ferrari riuscì a inquadrare quel disturbo, una patologia rara che avrebbe richiesto un lungo periodo di terapia. Di quella malattia non fa il nome. Per pudore forse, e per evitare a chi legge la sua storia di trarne conclusioni frettolose e approssimative:

Una notte, era il 2 giugno, mi ricoverano in un ospedale vicino a casa, a Roma. Lì incontro il medico più importante per me. La diagnosi che fa non è per niente buona. Mi perdoni, ma non farò il nome di questa malattia rara perché appena l’hanno fatto a me sono andata su Internet, ho digitato la patologia e mi sono spaventata. Insomma, il medico suggerisce una terapia importante e pericolosa, qualcosa che poteva funzionare solo in una percentuale di casi. Io decido di non farla e parto per Pantelleria. Ero lucidissima, quell’estate, per via delle dosi di cortisone. Dipingevo, mi sentivo molto illuminata e ogni tanto provavo a preparare al peggio i miei figli. Poi la situazione peggiora, mi riportano a Roma d’urgenza e inizio la terapia. Ogni mattina, per due anni, sono andata in quell’ospedale. E quando non potevo muovermi, dal letto della struttura chiamavo i miei figli via Skype per restare ancorata a loro e alla vita. Piano piano, un passo alla volta, ce l’abbiamo fatta. Ho avuto tanta paura di vivere quando avevo vent’anni. E mi sono fatta venire pure gli esaurimenti con la depressione. La recente malattia, però, mi ha fatto capire che non devi avere paura di morire. Perché è la paura di vivere a fregarti. Solo quella. Soltanto quella.

Gli anni segnati dalla depressione

In una certa misura, la Ferrari è già stata abituata al dolore. Lo ha sperimentato quando era solo una ragazzina e il successo la travolse improvviso. Fu il film Sapore di mare a imprimere alla sua vita il corso che l’attrice avrebbe seguito, talvolta a caro prezzo: “Subito dopo l’uscita di Sapore di mare ho conosciuto la depressione. Non ero pronta a quel successo. Quando scendevo per strada, tutti mi chiamavano Selvaggia, non potevo più fare nulla da sola. Ricordo che avevo l’abitudine di andare in chiesa, per me cresciuta a Piacenza era normale entrare in parrocchia, era il nostro riferimento. Insomma, entro in una chiesa di Roma e il giorno dopo escono le foto su un giornale scandalistico travisando le mie intenzioni. Ero una bambina. Una bambina travolta dal successo”. In quel periodo cominciarono a palesarsi i primi disturbi, insieme alla necessità di dover far fronte a quell’esistenza che aveva cambiato forma, dilatandosi fino a contenere quanto la Ferrari, all’epoca, non aveva nemmeno mai immaginato:

Ero infelice e turbata. Capivo che non riuscivo più a gestire la situazione. E i paparazzi. E i produttori. Dovevo fare qualcosa. Andai in analisi. Di quel periodo ricordo di aver lavorato molto sui miei sogni. Il sogno più ricorrente era di venir travolta da un tram, da un autobus mentre attraversavo piazze immense. Col tempo, ho imparato ad accettare il mio destino, un destino di tram e autobus che mi avevano travolta. La svolta, però, arriva sempre quando capisci che sei tu a poter disegnare un destino tutto tuo. Io ci sono riuscita osando. Soprattutto col mio corpo, strumento che all’inizio avevo vissuto come un limite alla mia intelligenza o al mio talento. Il mio corpo è servito come un racconto. Della violenza dell’uomo sulla donna. Dell’amore del maschio per la femmina. Per narrare le donne che si separano, che sono troppo magre, che hanno bisogno di essere raccontate. Di fronte a una grande storia, di fronte a un grande regista il mio corpo è diventato una tela bianca su cui proiettare tutto. Senza se e senza ma.

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